RIFLESSIONI


Nel 1967 la rivista MUSICA MINIMA da me fondata e diretta commissionò un saggio a Franco Donatoni che qui riproduco.
Davide Anzaghi
www.davideanzaghi.it




Davide Anzaghi e Franco Donatoni durante la loro collaborazione


«BISOGNA CONTINUARE, E ALLORA CONTINUERÒ, BISOGNA dire delle parole, sin che ce ne sono, bisogna dirle, sino a quando esse mi trovino, sino a quando esse mi dicano, curiosa pena, curiosa colpa, bisogna continuare, forse è già fatto, forse mi hanno già detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, davanti alla porta che s'apre sulla mia storia, mi stupirebbe, se si aprisse, sarò io, sarà il si1enzio, lì dove sono, non so, non lo saprò mai, ne1 silenzio non si sa, bisogna continuare, e io continuo» (Beckett).
E' opinione corrente che la cosiddetta musica leggera sia qualcosa di differente dalla musica d'arte, ma accade spesso che non si possa - o non si voglia - distinguere i due fenomeni con la chiarezza che essi in realtà, manifestano. Si può, allora, porli a confronto nell'intento di cercarvi una rassicurante analogia - là dove non v'è che dissimiglianza - anziché esasperare i tratti antinomici allo scopo di separare ciò ch'è differente da ciò ch'èsimile. Perché, sia detto subito, è altrettanto corrente l'opinione secondo la quale val più conoscere ciò che una cosa è di quello che essa non è. Insomma, che nel proprio labirinto si debba procedere più col martello dell'affermazione che col bisturi della negazione.
Lasciando da parte le definizioni ufficiali, qualcuna .delle quali osa riconoscere un processo di osmosi tra la musica d'arte e la musica d'industria, si può tranquillamente affermare che tra le due non v'è in comune che la materia prima della musica, vale a dire il suono, insieme ai suoi meccanismi di produzione, cioè gli strumenti musicali. È ovvio che non è qui il caso di indagare sulla natura di quella che s'è voluta chiamare musica d'arte (che cos'è l'arte?), nè di quella denominata musica d'industria (che cos'è l'industria?): dare una risposta a simili domande non è compito del musicista, la cui coscienza critica è spesso frammentaria ed è guidata più dall'intuizione che da autentiche capacitità di analisi. D'altra parte, è ormai arcinoto a tutti quali siano gli attributi essenziali di un qualsiasi prodotto industriale:

a) la sua esistenza non è garantita dalla matrice ma dalla sua riproducibilità in serie;  
b) la sua funzione è il consumo, perciò il grado della sua utilità è quantitativamente misurabile;
c) il consumo è garantito dalla produzione dei bisogni che ne attuano l'utilità;
d) la produzione del bisogno non considera l'uomo come fine ma come mezzo necessario al consumo;
e) mentre la vita della matrice potrebbe anche essere illimitata, quella del prodotto è tanto più effimera quanto più grande è la produzione dei nuovi bisogni che lo rendono inutilizzabile;
f) il primo dovere del musicista d'industria è quello di produrre oggetti musicali destinati a un immediato consumo.

Ora, se si tentasse di applicare alla musica d'arte i principi della produzione industriale, non si otterrebbe alcun risultato. Perché:
a) l'opera d'arte esiste soltanto nella sua singolarità e non è riproducibile;
b) la sua funzione è indifferente al consumo e nessun fine utilitaristico può esserle attribuito;
c) la conoscenza dell'opera è fine a se stessa;
d) il rapporto opera-ascoltatore è strettamente individuale, la persona umana essendo la sola destinataria dell'opera;
e) l' esistenza dell' opera è indifferente alla sua esecuzione e persino alla sua intelligibilità nei confronti dell'uditore;
f) il primo dovere del compositore è quello di essere compositore.

Un'altra antinomia riguarda lo stile, cioè quel modo particolare di dar forma all'idea, che fu di capitale importanza nella musica d'arte degli ultimi secoli (fatta naturalmente eccezione per quegli oggetti di artigianato musicale che erano solo ripetizioni di stili gia noti). La nozione stessa di stile è invece ignota al prodotto dell'industria musicale, le cui norme di confezione pongono la distinguibilità al di fuori dell'individuo-stile, in una zona neutra, mediante procedimenti di differenziazione apparente spesso assai complessi dal punto di vista tecnico. Donde provengono simili procedimenti? Vi sono, è vero, gli accorgimenti più fantasiosi di esecuzione, di registrazione e di riproduzione meccanica, ma non è a questi che si vuole alludere; piuttosto a quella miniera inesauribile ch'è, a tutt'oggi, la musica tonale, la quale offre al compositore industriale le formule-modello necessarie alla progettazione e fabbricazione dell'oggetto. Si badi bene: mentre la musica d'arte ha subito un processo evolutivo sempre più rapido (sulla cui natura ora non si vuole indagare), la musica d'industria ha operato sino ad oggi una sorta di congelamento delle strutture tonali dalle quali non è destinata a uscire tanto presto.
È vero che ancor oggi vivono (anagraficamente) musicisti che operano secondo le tecniche derivate dal basso continuo, ma mentre questi possono essere considerati quali normali fenomeni di ritardo evolutivo (tali sono le leggi della natura), per l'industria musicale non si può dire altrettanto: la produzione odierna, come noi la possiamo conoscere, perpetua nella canzone i modelli della musica settecentesca - e non può fare altrimenti - deformandone di volta in volta qualche peculiarità, ai fini di quella che s'è voluta chiamare «differenziazione apparente». Per l'industria, infatti, non v'è tradizione musicale al di fuori di quella tonale.
E come l'ideologia industriale attua mediante se stessa l'equivalenza di tutte le ideologie, pur lasciandone intatto l'involucro, così il musicista d'industria opera il livellamento degli stili tonali maneggiando cadaveri fabbricati in serie, ai quali viene applicato, di volta in volta, l'attributo artificiale dell'attualità.
L'ovvietà di quanto sopra è manifesta e non varrebbe ripetere idee già note sino alla nausea se non si intendesse additare all'attenzione del musicista le due sirene che ci tentano quotidianamente e delle quali siamo facile preda, talvolta quasi inconsapevolmente. La prima ci invita a collaborare, ad inserirci attivamente nel mondo così com'è (dal momento che non puo essere altrimenti), ci pone dinanzi agli occhi gli errori della solitudine, ci stempera nella massa e ci rassicura mediante l'accecamento; la seconda ci ammonisce e ci incita alla protesta, alla ribellione, al rifiuto: essa stessa è cieca, perciò vede realtà nelle cose sperate. L'una e l'altra sono ascoltate dalle moltitudini, perché ognun teme di metter cera negli orecchi: ambedue praticano l'affermazione, si rivolgono alle nature appetitive, le loro contraddizioni sono perciò apparenti e divengono indistinguibili nell'inferiore unità dell'Industria; soltanto colui che non le ode volontariamente ha qualche probabilità di conservare la vista, ma nemmeno questo è certo. Perché se la resa e l'opposizione sono una cosa sola, l'altra non sappiamo cosa sia: probabilmente è inafferrabile, forse è nota soltanto a coloro che sanno comporre insieme difesa e abbandono.
Il musicista sa bene che le sue capacità visive si modificano col modificarsi del mondo, egli teme la sua metamorfosi ma non gli resta che prevenire l'industria nella sua sopraffazione, conformandosi alle conseguenze di essa senza ceder alle lusinghe di un ottimistico silenzio. Egli (il musicista) sottrae - nell'oppressione di se divenuta spontaneità - le proprie esperienze dal mondo degli oggetti; pur conoscendo la propria condizione di consumatore, non dimentica l'assenza dell'uomo e, ben sapendo che tutto nel mondo è forma, osa continuare a vedere realtà nell'informe. Egli considera la composizione come una attività non necessariamente volta a produrre cose destinate al consumo; la forma apparente, delle sue elaborazioni sia pertanto solo il mezzo necessario all'esperienza compositiva, non più il fine: «bisogna continuare,  e allora continuerò, bisogna dire delle parole, sin che ce ne sono, bisogna dirle, sino a quando esse mi trovino, sino a quando esse mi dicano, curiosa pena, curiosa colpa, bisogna continuare, forse è già fatto, forse mi hanno già detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, davanti alla porta che s'apre sulla mia storia, mi stupirebbe, se si aprisse, sarò io, sarà il silenzio, lì dove sono, non so, non lo saprò mai, nel silenzio non si sa, bisogna continuare, e io continuo» (Beckett).

franco donatoni

 

 

 
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